La trappola del micromanagement

La trappola del micromanagement

Trovare la giusta formula per un stile di management basato sulla qualità delle relazioni, la fiducia e la collaborazione

Se mai ce ne fosse stato realmente bisogno, la pandemia - che ha portato a una forte diffusione dello smart working - ha reso ancor più evidente la necessità di ripensare le strutture e i processi organizzativi delle imprese: a partire dalla gestione del capitale umano, basata tradizionalmente su un modello gerarchico e a compartimenti stagni - i cosiddetti "silos" - che troppo spesso dà ancora oggi luogo al famigerato "micromanagement" (in italiano  "microgestione").

Una pratica che, nonostante la sua cattiva fama, è molto più diffusa di quanto si possa immaginare e che dall'inizio dell'emergenza sanitaria, con la crescita dello smart working, ha assunto nuove ed inedite vesti, tra cui il moltiplicarsi in modo spropositato di email e riunioni a distanza.

Secondo un'analisi pubblicata su LinkedIn, il 79% dei dipendenti è stato soggetto al micromanagement almeno una volta nel corso della sua vita professionale. Un dato allarmante soprattutto se si considera che i dipendenti che si sentono controllati nel corso della loro attività lavorativa quotidiana tendono a registrare performance inferiori almeno nel lungo periodo, come dimostra uno studio del 2011 uscito sulle pagine del Journal of Experimental Psychology.

Micromanagement in azione: tra cause e conseguenze di un fenomeno che danneggia la performance dell'Azienda

Secondo la definizione del Cambridge Dictionary, il micromanager è "colui che cerca di controllare ogni singolo aspetto di una situazione, inclusi i minimi dettagli".

Si tratta di uno stile di management basato sull'intervento massivo e sul controllo costante ed eccessivo delle attività dei propri collaboratori. I micromanager si rifiutano di delegare, tendono ad accentrare su di sè ogni cosa e a supervisionare fin nei minini dettagli tutte le attività affidate ai propri collaboratori. Assillati dal controllo e consapevoli che il compito va svolto - e va svolto bene -, molti di loro si lasciano coinvolgere eccessivamente nell'attività dei singoli team o dei singoli sottoposti.

Sentendosi responsabili del risultato, si adoperano affinché il lavoro venga concluso più in fretta possibile: un approccio che si concentra unicamente sugli obiettivi di breve termine, ignorando i vantaggi dell'utilizzo della delega in un'ottica di medio e lungo periodo. Sebbene in molti casi siano mossi dalle migliori intenzioni, con il loro comportamento non fanno altro che incidere negativamente sulla performance dei singoli collaboratori, dei team che gestiscono e, più in generale, sull'azienda.

Il micromanagement incrementa, infatti, gli sprechi di tempo attraverso una sequenza infinita di approvazioni, pianificazioni ripetitive, revisioni aggiuntive, e-mail superflue e riunioni inutili. Per non parlare dei colli di bottiglia, delle lentezze, dei cambi di rotta e degli attriti non necessari causati dal micromanager che, volendo tenere sotto il suo stretto controllo una mole eccessiva di progetti ed attività, finisce per interferire nel regolare flusso di lavoro dei propri collaboratori e team, intervenendo spesso in modo inappropriato - non avendo seguito tutte le fasi del progetto - e su aspetti in cui la persona gestita dovrebbe avere la delega decisionale.

Come risultato, il dipendente risponde alle direttive - e talvolta ai capricci - del capo di turno con l'obiettivo di ottenere la sua approvazione, anzichè alle esigenze del lavoro, alla soddisfazione del cliente e al perseguimento degli obiettivi aziendali.

Si tratta di comportamenti e relazioni disfunzionali che assorbono energie preziose e minano la motivazione, il coinvolgimento e la soddisfazione delle persone, oltre a comprometterne la produttività e l'efficienza.

Nella lettaturatura dedicata al micromanagement si citano sempre le celebri parole del generale George S. Patton che suggeriva ai leader di non dire mai alle persone come fare le cose: "Ditegli cosa fare, e vi sorprenderanno con la loro inventiva". Uno stile di managament basato sull'autorevolezza più che sull'autorità, in cui il leader non ha paura di delegare, permettendo così ai propri collaboratori e team di sentirsi coinvolti e di crescere.

Non concedendo alcun margine di flessibilità e discrezionalità, il micromanager non lascia alle persone alcuno spazio di crescita professionale, deresponsabilizzando i collaboratori e team e, di fatto, bloccando fattori cruciali per lo sviluppo dell'intera organizzazione come il problem solving, la creatività, l'innovazione, la passione e l'entusiasmo.

I dipendenti, infatti, finiscono per non condividere la responsabilità del lavoro, così come si sentono estranei al modo in cui si raggiungono gli obiettivi. Demotivati e deresponsabilizzati, la maggior parte di loro si limita a fare lo stretto indispensabile. Paradossalmente, a questo continuo controllo non corrisponde una maggiore e più efficace comunicazione tra il capo e i suoi sottoposti, nè tantomeno si assiste a più frequenti ed accurati feedback.

Al contrario, in diversi casi il micromanager non fornisce ai collaboratori e ai team tutte le informazioni e le conoscenze necessarie per svolgere in autonomia il lavoro e prendere delle decisioni relative ai progetti di cui sono responsabili. Si tratta di situazioni disfunzionali in quanto frenano l'innovazione e ostacolano l'opportunità di fare carriera, impedendo alle persone di acquisire una conoscenza completa dell'azienda e di dimostrare le proprie capacità e competenze.

Si crea così un clima di ambiguità e di mancanza di trasparenza sui percorsi di carriera, sui sistemi di valutazione e sviluppo del personale e sulla responsabilità che non fa altro che pregiudicare l'ambiente di lavoro e aumentare il  turnover aziendale.

Questi complessi rapporti di dipendenza impediscono lo sviluppo di un clima di fiducia e di collaborazione e, allo stesso tempo, aumentano inutilmente i livelli di stress, di ansia, di frustrazione e di insicurezza, uniti alla costante paura di sbagliare, di essere giudicati o sostituiti. Fattori e sentimenti negativi che non solo segnano la vita professionale dei dipendenti, ma che vivono e affliggono anche gli stessi micromanager, solitamente leader insicuri, ossessionati dal timore di perdere il controllo e di fallire.

È da questo profondo senso di inadeguatezza e di insicurezza che prende forma questo stile di management, basato sulla mancanza di fiducia in se stessi ancor prima che negli altri. Un approccio che, nel lungo periodo, è destinato a produrre effetti negativi non solo sulle persone, ma anche sulla organizzazione nel suo insieme e sulla sua performance, determinando - in ultima analisi - perdite di fatturato.

Come tenersi alla larga dalle insidie del micromanagement

Il primo errore da evitare quando si parla di micromanagement è quello di assimilarlo al management in generale, come se la "microgestione" fosse l'unico modo per guidare e dirigere team, collaboratori e intere organizzazioni. Il secondo fraintendimento che circonda questo fenomeno, tanto diffuso quanto criticato, è quello di considerarsi immuni da questa pratica in veste di manager o imprenditori.

Il terzo errore consiste nell'adottare "una politica di laissez-faire assoluto", come viene definita in un recente articolo uscito sulle pagine di Harvard Business Review, nella convinzione che sia l'antidoto più efficace per non cadere nella trappola del micromanagement.

Se infatti la microgestione produce effetti collaterali profondamente negativi sul capitale umano, questo non significa che le persone non abbiano bisogno e non sentano la necessità di essere supportate attivamente dal proprio capo. La vera sfida per ogni manager consiste, dunque, nell'imparare a mettere risorse, sostegno e consigli a disposizione dei collaboratori e dei team senza comprometterne l'autonomia e la capacità decisionale.

Essere consapevoli dei rischi insiti nel micromanagement è il primo passo per creare un clima di fiducia e di rispetto reciproco, in cui le persone sentono di avere l'opportunità di crescere professionalmente e di poter fornire il proprio contributo individuale al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

In quest'ottica, il leader deve agire da mentor e "facilitatore", anziché da micromanager, guidando e dirigendo efficacemente le persone attraverso l'esempio e l'ascolto attivo, che significa - innanzitutto - porre domande ed esplorare le idee altrui nell'ottica di una collaborazione sempre più aperta, agile, efficace e produttiva. Questa dinamica, però, deve essere messa in moto da chi si trova al vertice, per poi diffondersi a cascata in tutti i comparti l'azienda.

Si tratta di uno stile di management in grado di produrre effetti win-win per i leader, i dipendenti e l'impresa. Alla luce di ciò, è fondamentale che ogni azienda - in base alla propria organizzazione e al proprio business - trovi il giusto equilibrio tra la necessità di una certa dose di gerarchia e strutturazione e l'esigenza di un management più autonomo, basato sulla performance e sull'innovazione, che non cada mai nella trappola della microgestione.

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