Gestire la diversità generazionale in Azienda

Gestire la diversità generazionale in Azienda

Per la prima volta nelle aziende convivono quattro generazioni diverse: un mix di età che porta con sé valori, esperienze e aspirazioni differenti. Un gap generazionale che la rivoluzione digitale non ha fatto altro che accrescere.

Eppure dal modo in cui si compongono queste differenze dipende il futuro delle imprese: perché gestire la diversità generazionale è uno strumento di crescita. Un valore aggiunto che si rivelerà particolarmente strategico durante il passaggio generazionale: una transizione che richiede, innanzitutto, la condivisione da parte dei futuri candidati alla leadership dell’ethos aziendale.

La rete, i dispositivi mobili e i social media hanno cambiato per sempre il nostro linguaggio e il nostro modo di relazionarci, il mondo della comunicazione e dell’informazione. È la rivoluzione digitale che, dopo aver radicalmente modificato queste industrie e ambiti della nostra vita, sta trasformando i mercati, il modo di fare business, il mondo del lavoro e il volto stesso delle aziende.

Molti studiosi e osservatori parlano di “distruzione creativa”: un fenomeno inarrestabile e dirompente che coinvolge sempre più da vicino anche le piccole e medie imprese italiane, dove il carattere più innovativo e radicale delle nuove tecnologie trova nella generazione dei “millennials” i massimi rappresentanti. E il mondo con tutto il suo futuro, secondo i demografi, è destinato ad appartenere proprio a loro, ai “millennials”, vale a dire il gruppo dei nati tra il 1980 e il 2000. Sarà proprio questa generazione, cresciuta in un contesto di relativa opulenza e abituata ad essere connessa 24 ore al giorno, a prendere il testimone della generazione ancora oggi dominante, quella dei “baby boomers”.

Questi ultimi sono nati dopo la Seconda guerra mondiale, tra il 1946 e il 1964. Sono i figli del boom degli anni Sessanta, andati al potere quando in Italia iniziava l’era di Silvio Berlusconi. Se i “millennials” o generazione “Y” sono spesso descritti come narcisisti, freddi, pigri, immersi nel mondo digitale e poco interessati alla società che li circonda, i “baby boomers” credono invece nel gioco di squadra, nel valore dell’esperienza e nei rapporti personali diretti. Ovviamente dietro queste categorie create dai sociologi si celano molti stereotipi: tra i quali, per esempio, l’idea che i “baby boomers” siano più attaccati al lavoro e alla propria organizzazione rispetto ai “millennials”, tacciati invece di essere infedeli, egoisti e di dare troppa importanza alla vita privata e al divertimento. In ogni caso la generazione “Y” godrebbe anche di indubbie qualità: una maggiore tolleranza e apertura mentale e creatività rispetto ai predecessori.

Tra queste due generazioni, destinate a quanto pare al successo, esiste un terzo gruppo costituito dai nati tra il 1965 e il 1979. Sono i ragazzi cresciuti con i primi computer, ma sempre troppo presto per vivere a pieno la rivoluzione digitale: è la generazione “X”, così definita dai sociologi per la sua indeterminatezza. I membri di questo gruppo, probabilmente meno fortunato degli altri due, sono i lavoratori più numerosi e si caratterizzano per ambizione, flessibilità, realismo e indipendenza. 

Ai due estremi opposti di queste tre gruppi troviamo da un lato i “veterani”, cioè gli Over 70, nati durante la Seconda guerra mondiale e che ancora oggi sono spesso al vertice delle aziende; dall’altro la generazione “Z”, i nati dopo il 2000. Questi ultimi devono ancora affacciarsi al mondo del lavoro e per il momento sono classificati come i “nativi digitali”, velocissimi nell’apprendere e, secondo i sociologi, più intelligenti delle generazioni precedenti. 

Ma perché è così importante per la PMI italiana affrontare il tema della diversità generazionale? Perché, con l’aumento dell’aspettativa di vita e l’innalzamento dell’età pensionabile, per la prima volta quattro generazioni – dai “veterani” fino ai “millennials” – si trovano a convivere, a lavorare fianco a fianco, nella stessa azienda. Perché, come sostiene Maria Cristina Bombelli, studiosa delle diversity sul lavoro e autrice del libro-ricerca Generazioni in azienda. Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse, “la gestione delle differenze generazionali è una delle maggiori sfide del prossimo futuro”. E per vincere questa sfida è necessario trasformare quello che si presenta a tutti gli effetti come uno scontro culturale in una sinergia fertile. 

Ogni generazione, infatti, che si trova a condividere lo stesso luogo di lavoro e, perciò, a perseguire gli stessi obiettivi aziendali, si caratterizza per valori, esperienze, esigenze, aspettative e aspirazioni differenti; così come sono diversi i codici linguistici, i riferimenti culturali e simbolici.

In particolare, la rivoluzione digitale ha notevolmente acuito la distanza tra le varie generazioni riguardo al modo di relazionarsi alla tecnologia e, di conseguenza, di comunicare. Da questo punto di vista, i mercati e le aziende stanno vivendo un’epoca senza precedenti, dove la capacità da parte delle imprese di riuscire a cogliere e sfruttare il potenziale innovativo delle nuove generazioni diventa una variabile strategica fondamentale. Perché è proprio a partire dai “millennials” e dalla loro capacità di adattarsi con estrema rapidità ai mutamenti del mercato e della tecnologia che le organizzazioni possono ridisegnare il loro business, anticipare i cambiamenti e proiettarsi con ottimismo e consapevolezza verso il futuro.

Non si tratta, tuttavia, di scommettere su una generazione piuttosto che su un’altra, ma occorre invece creare un modello di risorse umane all’insegna della valorizzazione della diversità, dove ogni generazione sia messa nelle condizioni di esprimere al meglio se stessa, il proprio talento e i propri punti di forza. Ciò significa che la gestione di un personale così vario deve diventare parte, in un’ottica di medio periodo, del piano di organizzazione aziendale.

E il primo passo da compiere in questa direzione è rappresentato dalla consapevolezza e dal dialogo: dove per consapevolezza si intende la presa di coscienza da parte di ogni dipendente delle proprie e distintive caratteristiche. Sì, perché la cognizione dell’esistenza di competenze diverse e di modelli comportamentali e valoriali differenti favorisce la costruzione di un dialogo tra generazioni, creando così le premesse per un continuo scambio di conoscenze ed esperienze diretto a migliorare le performance aziendali. Così il secondo passo consisterà nell’integrazione tra i diversi gruppi demografici: un processo che dovrà essere accompagnato dal consolidamento di una cultura aziendale condivisa ed efficace.

Vincere la sfida della diversità generazionale, vale a dire attrarre i “millennials” nel mondo del lavoro, valorizzando il loro talento e creando un rapporto vantaggioso con le generazioni più mature, è il futuro: solo così si può rinnovare quello spirito di appartenenza che ha fatto crescere le nostre imprese per lungo tempo. 

Poiché la sovrapposizione di più generazioni si riflette nella gerarchia aziendale, dove di solito al vertice troviamo rappresentanti dei “baby boomers” e dei “veterani”, l’incapacità di gestire le differenze legate all’età si può manifestare in tutta la sua complessità durante le fasi del passaggio generazionale. Se, infatti, la transizione alla guida dell’azienda è uno dei momenti più delicati nel ciclo di vita di ogni impresa, tale passaggio si rivela ancor più critico e problematico laddove le organizzazioni si dimostrino incapaci nell’affrontare il gap generazionale, nello sfruttare la diversità della forza lavoro e nell’attrarre, valorizzare e trattenere i propri talenti.

E chi guida un’azienda familiare è perfettamente consapevole del problema.

Perché se le differenze generazionali devono essere vissute dall’impresa come un’importante fonte di ricchezza e di rinnovamento continuo, allo stesso tempo è fondamentale che tutti i dipendenti, a prescindere dall’età e dal ruolo ricoperto, condividano l’ethos della propria azienda. Una condivisione di valori e di visione che può svilupparsi e diffondersi all’interno di tutto il personale solo attraverso quello stesso dialogo e quella stessa integrazione che hanno trasformato il gap generazionale in un valore aggiunto. Tutto ciò vale ancora di più nelle fasi che segnano il passaggio di mano del potere: una transizione che per essere gestita con successo richiede, innanzitutto, l’aderenza valoriale e culturale come banco di prova decisivo per valutare le varie candidature alla leadership.

Appare evidente, altresì, che se i vertici non hanno investito in precedenza nella trasmissione alle nuove generazioni dei valori e della stessa visione che definiscono l’identità dell’impresa, non può esistere alcun leader futuro in grado di allinearsi e incarnare l’ethos aziendale. 

Il tema della diversità generazionale non è più rimandabile, perché il futuro inizia adesso e le piccole e medie imprese italiane hanno tutti gli strumenti per affrontare con successo questo mix di età che, se ben gestito, è destinato ad arricchire l’azienda stessa.

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